Passata l’euforia dei David di Donatello e il breve accenno di realtà di quello che fino a due mesi fa era il cinema, mi immergo per l’ultimo rush finale della sfida primaverile.
Leggi l’articolo ascoltando un brano del film: Alone
Ci risiamo. In questi giorni dove l’epidemia mondiale appena trascorsa sembra già un deforme e pericoloso ricordo per le nostre coscienze, ecco lo spettro delle responsabilità farsi di nuovo vivo per le strade e in mezzo a noi. Così, tra una schivata e l’altra dei corridori (e dei ciclisti!) e protetto dalla sottile barriera di tela, ho ripensato a Detroit; il film diretto da Kathryn Bigelow e scelta numero tredici della mia challenge primaverile. Il motivo? La similitudine tra i terribili fatti avvenuti nel 1967 nella città americana e questa situazione contemporanea. Non nelle tematiche, così distanti tra loro, né per il luogo. Piuttosto per la nostra smemoratezza e scarsa attitudine ad imparare dalle pagine più complicate e oscure della storia.
Estate del 1967. Detroit è la città industriale per eccellenza del capitalismo americano, la motor citypiù produttiva della East Coast. Ma sono anche i temibili anni Sessanta, con le prime proteste studentesche e le battaglie per i diritti civili degli afroamericani. Una notte, in un ghetto della città, scoppia una sommossa dopo una retata della polizia in un club dove si vendono alcolici senza permesso. È l’evento che accende la scintilla della rivolta: la comunità afroamericana inizia una guerra civile senza quartiere a Detroit dal 23 al 27 luglio, stanchi di essere discriminati per il colore della loro pelle, contro la polizia e la guardia nazionale. In particolare, il film segue le vicende accadute dall’Algiers Motel, dove gli ospiti dell’albergo si troveranno coinvolti in un caso da risolvere da parte di una pattuglia di poliziotti locali feroce, spietata e razzista; pronta a tutto – anche alla tortura – pur di scamparla per il loro modo di gestire l’operazione…
Camera in spalla e siamo dentro alle rivolte più distruttive e conosciute della storia degli Stati Uniti, in una città piegata dal conflitto tra la rabbia latente della popolazione afroamericana e l’uso autoritario della forza della polizia. È un film sulla violenza, perché Detroit riflette sul come invece del cosa: l’integrazione (mancata) invece del razzismo; il potere al posto delle responsabilità di uno Stato. Non mancano certo delicate ambiguità con il quale fare i conti nella visione di un’opera ricca di scelte tecnico-artistiche di alto profilo. Se da un lato, infatti, è ammirevole il resoconto romanzato di quei giorni, resta irrisolto lo scopo ultimo della regista premio Oscar.
Qualcuno scrive come la questione razziale sia impossibile da rappresentare con lucidità e onestà dentro ad un film. Eppure il tema del colore della pelle, nonostante tutto, fa ancora differenza a Hollywood perché inestricabilmente intrecciato a un’enorme questione americana. Registi con prospettive etniche e politiche diverse ci hanno provato in tempi recenti: Steve McQueen con 12 anni schiavo, la parabola sociale terrificante di Jordan Peele tra Scappa – Get Out e Noi; per non dire di Clint Eastwood con Gran Torino o Quentin Tarantino con Django Unchained. Anche la Bigelow, dopo i guerrilla-movie di successo con The Hurt Locker e Zero Dark Thirty, porta lo sguardo della sua camera-reporter dentro una ferita ancora aperta della storia americana, trovando la violenza come una soluzione di un problema mai del tutto risolto, a distanza di secoli, di convivenza e identità sopita e ipocrita.
La Bigelow sembra vedere gli scontri di Detroit come il segno dell’infamia per una società capitalista: non soltanto il fallimento economico del 2013, ma come disfatta sociale di un’intero modello di diritti e giustizia. E i protagonisti violenti di quei giorni – da una parte e dall’altra – non trovano alcuna redenzione né giustificazione per motivi diversi, da scoprire durante la visione; né le vittime torturate, né le responsabilità di uno Stato. Insomma: la Bigelow non ha paura di mettere a nudo un lato oscuro dell’America, riavvolgendo il nastro indietro di cinquant’anni per ritrovare situazioni di oggi; un presente di sofferenza, confusione e impossibilità a “integrarsi”.
E questa sottile ambiguità nel riprendere la violenza ferina diventa il dispositivo narrativo efficace da un punto di vista registico. Con lo stile della frenetica camera a mano, vero e proprio marchio di fabbrica della Bigelow, Detroit ruota attorno agli orrori nell’Algiers e ancor prima per strada, dove la ripresa degli eventi ci porta faccia a faccia con la crudeltà subìta dai personaggi da un bravissimo Will Poulter nella parte del poliziotto razzista. E con un’ottima messa in scena e la recitazione degli attori, l’angoscia e la sofferenza ci attanaglia senza mollarci fino alla fine. Ma il compromesso da pagare è molto alto. Dicevo prima delle ambiguità: non solo la sceneggiatura di Mark Boal è troppo sbilanciata nella parte centrale, focalizzandosi su un solo evento; ma anche la cronaca stessa sembra quasi essere smentita dalle testimonianze imprecise ed emotive delle vittime durante il processo. Senza dimenticare un prologo animato di storia molto sintetica e imprecisa, come a porre da subito il film in una questione politica di classe e razza.
Detroit è un film intenso, instabile e complesso, di grande abilità tecnico-artistica e con un intento sociale elevato; ma lo scarso successo al botteghino dimostra come nel cinema lavarsi in casa i panni sporchi non paga. Forse perché la comunità afroamericana, nel bene e nel male, viene “usata” come espediente per sollevare scomodi interrogativi sull’uso della violenza e del suo esercizio per insabbiare la verità. Eppure, nonostante ciò, rimane una questione politica attuale.
E in questo senso, dovremmo smetterla di dimenticare ogni volta le scelte del passato. E’ difficile accettare il verdetto della Storia sulle scelte di un proprio presente. E nonostante le lezioni, continuiamo a giustificare le nostre assenze. Eppure, proprio quando si tratta di essere seri, basta una pistola giocattolo a far crollare ogni convinzione, ogni barriera, ogni pregiudizio. Di qualsiasi colore e bandiera.
Top&Flop
Top: La costruzione e gestione della suspence dell’intera sequenza del motel è da studiare e apprezzare; vale il prezzo del biglietto.
Flop: L’introduzione storica forzata e alcune ambiguità di fondo sulla rappresentazione della violenza.
La frase
Fred Temple: A che serve?
Melvin Dismukes: Senti, io ti capisco, ok? Ma non metterti contro di loro. Devi sopravvivere alla notte. Devi sopravvivere.
No, non sono sparito in qualche antro oscuro di città in questa nuova fase storica di libertà vigilata. Sono tornato a fare ciò che mi piace di più: pensare mentre cammino nei prati dietro casa mia. Una semplicità mancata.
E di cose da ritrovare ci sarà senz’altro la cultura nei prossimi tempi.
In questi giorni così pesanti e tesi, le luci accese dei cinema in occasione dei David di Donatello sono state davvero un piccolo gesto di speranza di tornare insieme a sognare ad occhi aperti, come ha detto pure il Sergione Nazionale Mattarella in una lettera a Piera Detassis, direttrice dell’Accademia del Cinema.
E in quel momento sottovuoto di intrattenimento e distrazione della cerimonia delle statuine dorate, abbiamo preso un respiro dalla bolla del covid-19 in cui siamo immersi da settimane per raccontare un po’ lo stato di salute del cinema italiano.
Ha (stra)vinto il buon Traditore dell’esperto Marco Bellocchio, miglior protagonista è Buscetta/Favino e un certo tipo di Storia nostrana è ancora la fonte d’ispirazione italiana per raccontare storie di successo. Dalla cinquina dei nominati come miglior film, quattro sono storici e due di essi parlano di mafia e ambienti sociali al limite. Più la favola a tinte scure di Pinocchio.
In un’edizione senza pubblico dal vivo ma in cui il pubblico di ogni giorno – bambini, mogli, amici dei vincitori – irrompe nella diretta streaming, dove la realtà del presente è più forte di ogni finzione, questi David storici riflettono cosa ricerca l’Italia delle sale buie. Ha bisogno di aiutare quella memoria sempre di breve termine a ricordarsi di sé stessa; di non dimenticare luoghi e protagonisti ambigui ma anche il proprio glorioso passato. Non è più il tempo di sognare o di fare ridere; la nostra non è l’epoca dei Fellini o dei Sordi, celebrati nel ricordo del loro centenario di nascita. Abbiamo ancora bisogno, nonostante Saviano e il ciclone Gomorra, di spettacolarizzare le parti più misere e ferite del nostro paese. Ricerchiamo e vendiamo all’estero – con orgoglio? – personaggi strazianti e straziati; dalla trilogia criminale di Garrone alla paranza dei bambini di un bravo Giovannesi, alle sevizie subìte dal trasformista Borghi-Cucchi al dramma musicale di Ammore e malavita dei Manetti Bros. Senza dimenticare i thriller di Donato Carrisi, o commedianti come Virzì e Genovesi prestati con successo ai drammi sociali come Il Capitale Umanoe Perfetti Sconosciuti. E il premio all’inquietudine da Oscar di Parasite di Bong Joo-ho come film straniero è la logica conseguenza.
Basta scorrere indietro di qualche anno i film vincitori per vedere chi siamo, come ci stiamo raccontando e cosa stiamo vendendo all’estero. Forse abbiamo bisogno di tornare a ispirarci a storie nuove: da un passato allegro ma profondo come Pif a quelle di periferia come le Favolacce alla D’Innocenzo, i cinema del reale di Rosi o di eroi crepuscolari alla Mainetti e Jeeg Robot; oppure a quelle d’esportazione di Guadagnino. Non più alle vittime della storia. Perché, nonostante tutto, il cinema italiano è ancora vivo; i nostri registi e gli artigiani del cinema – dagli sceneggiatori ai costumisti agli attori – all’estero fanno incetta di premi e successi. Forse siamo noi spettatori troppo chiusi in un pregiudizio duro a morire o affamati soltanto del sapore di pistole e sangue. E come tale, i nostri produttori si adeguano a ricercare storie criminali di qualità da portare sullo schermo.
Ma d’altra parte, ricordare è un atto necessario per avere un futuro. Forse, in tempi come questi, è importante non dimenticare. A patto di sforzarsi di trovare una nuova bellezza; non per forza grande come quella di Sorrentino, ma capace sì di raccontarsi così bene da far sognare davvero ad occhi aperti. E dimenticare – questo sì – ogni compromesso del vivere italiano.